
Una retorica che ritorna
“Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese.” (John F. Kennedy)
Nella storia della retorica politica moderna, poche frasi hanno avuto tanto successo quanto quella pronunciata da John F. Kennedy nel 1961, durante il suo discorso d’insediamento come Presidente degli Stati Uniti. . Era un’esortazione all’impegno collettivo, al senso civico, all’orgoglio di contribuire a qualcosa di più grande. Eppure, come spesso accade con le parole potenti, anche questa è stata nel tempo piegata, ridotta, manipolata. Oggi, soprattutto nel mondo del lavoro, viene spesso evocata in forme più o meno esplicite per ribaltare le responsabilità e spingere i lavoratori ad accettare condizioni sempre più gravose in nome della fedeltà, della passione, dell’adattabilità. Il messaggio implicito è chiaro: non aspettarti nulla, dai tutto e non chiedere niente in cambio.
Il paradosso della sala
Nel settore della ristorazione, e in particolare per chi lavora in sala, questa retorica del sacrificio ha trovato un terreno fertile. Si chiede al personale di essere impeccabile, empatico, competente, elegante, presente. Di sopportare turni lunghi, ritmi serrati, richieste assurde. Di sorridere anche quando non c’è nulla da sorridere. Di essere la faccia visibile dell’ospitalità, senza però ricevere quasi mai un riconoscimento proporzionato. Né economico, né simbolico.
La crisi che non si vuole vedere
Ogni anno, allo spuntare della stagione turistica, con puntualità svizzera, giornali, imprenditori e opinionisti si affannano a commentare la “crisi del personale”: non si trovano camerieri, non ci sono più giovani disposti a lavorare, mancano le figure professionali. E ogni volta il tono è quello del rimprovero: si è persa la cultura del lavoro, la dedizione, il senso del dovere. Ma raramente qualcuno si ferma a riflettere sul perché questo mestiere abbia perso appeal. Sul fatto che la questione non riguarda solo la disponibilità dei lavoratori, ma l’assenza sistemica di un riconoscimento — sociale, economico, umano — che renda quel lavoro degno di essere scelto, rispettato e valorizzato.
Il silenzio degli addetti ai lavori
Il paradosso più amaro è che proprio da chi lavora nella ristorazione — chef, manager, imprenditori, consulenti — arriva spesso il minor riconoscimento nei confronti del personale di sala. Invece di farsi promotori di un cambiamento culturale, molti preferiscono restare in silenzio. E quando qualcuno prova a sollevare il tema — parlando di carichi emotivi, precariato, assenza di prospettive — nella maggior parte dei casi il settore si volta dall’altra parte. È raro vedere discussioni pubbliche in cui si dà spazio vero alla sala. Ed è ancor più raro che queste vengano accolte con interesse o rilanciate. Forse perché parlare di chi serve non è instagrammabile, non fa like, non è glamour. Forse perché guardare in faccia la realtà metterebbe in discussione troppe certezze: l’immagine patinata dell’alta ristorazione, l’egemonia del “piatto” come unica forma di espressione, la narrativa del successo costruita tutta intorno allo chef e al design. E così, la sala continua a essere il grande rimosso del mondo della ristorazione. Visibile a tutti, ma riconosciuta da pochi. Fondamentale, ma ancora marginale nel racconto e nelle politiche del settore.
Honneth e il riconoscimento negato
Il filosofo e sociologo Axel Honneth ha sviluppato una teoria del riconoscimento molto utile per leggere questo scenario. Secondo Honneth, la possibilità per un individuo di costruire un’identità stabile e sana dipende dal riconoscimento che riceve in tre ambiti fondamentali: la sfera affettiva, quella legale e quella sociale.
Nel mondo della ristorazione, il personale di sala viene spesso ignorato in ciascuna di queste dimensioni. Affettivamente, è invisibile: nessuno si prende cura di chi serve, nessuno ne riconosce il carico emotivo quotidiano. Legalmente, molti contratti sono fragili, incerti, mal retribuiti, quando non del tutto irregolari. Socialmente, il ruolo del cameriere continua a essere percepito come temporaneo, subalterno, poco qualificato — un lavoro passeggero o il rifugio di chi non ha altre prospettive, non una professione.
Il mestiere che richiede tutto
Eppure, chi lavora in sala si trova a gestire una gamma complessa di relazioni, emozioni e competenze. Non solo porta piatti: ascolta, anticipa, osserva, traduce il linguaggio della cucina in esperienza per il cliente. Ha bisogno di intelligenza emotiva, conoscenza di più lingue, cultura non solo gastronomica, equilibrio. Tutto questo non si improvvisa ma si costruisce nel corso degli anni. E tuttavia continua a non essere riconosciuto.
Il teatro invisibile di Goffman
Erving Goffman, nel suo libro The Presentation of Self in Everyday Life, descriveva l’interazione sociale come un palcoscenico sul quale ognuno di noi recita una parte. Il cameriere è l’attore per eccellenza. Interpreta un ruolo con grazia e continuità, mascherando stanchezza e frustrazione, modulando voce e corpo per incarnare l’idea di ospitalità. Ma in questo teatro quotidiano manca spesso lo spettatore attento: nessuno applaude, pochi vedono — soprattutto i manager. Il personale di sala è costretto a stare in scena anche quando le condizioni lavorative sono ingiuste, e la dignità viene calpestata
La falsa promessa della meritocrazia
A tutto questo si aggiunge un’altra distorsione moderna: la trappola della meritocrazia. L’idea che chi si impegna di più, chi “ha passione”, chi “fa la differenza”, verrà prima o poi ricompensato. È un racconto seducente, che però regge solo se esiste un sistema di riconoscimento reale. In assenza di tutele, aumenti salariali, avanzamenti di carriera o semplicemente rispetto, la meritocrazia si trasforma in un dispositivo di sfruttamento: serve a tenere in riga, a illudere, a giustificare ogni abuso come colpa individuale.
La colpa del lavoratore
La retorica del sacrificio, quindi, non è solo un discorso vuoto: è una struttura che impedisce il cambiamento. Alimenta il senso di colpa e impedisce di rivendicare diritti. Ti dice che lamentarti è un atto di disonore, che se ami il tuo lavoro devi sopportare tutto. Ma non c’è amore che giustifichi l’ingiustizia. E non c’è passione che possa sostituire un contratto decente, una retribuzione equa, una cultura aziendale fondata sul rispetto.
La domanda sbagliata
Forse è arrivato il momento di ribaltare la domanda. Non più: perché nessuno vuole fare questo lavoro? Ma: perché questo lavoro continua a essere considerato poco degno? Perché l’industria della ristorazione — che vive letteralmente di servizio — si ostina a trascurare chi quel servizio lo rende possibile? Perché si investe tanto nel food design e così poco nella dignità del personale?
Il servizio come relazione
Il servizio non è un sacrificio. È una relazione. Un gesto umano. Un momento di ascolto, cura, attenzione. Se vogliamo che torni a essere una scelta, dobbiamo restituirgli il valore che ha perduto. E questo comincia da una parola semplice, ma troppo a lungo negata: riconoscimento. Perché senza riconoscimento, non c’è servizio. E senza servizio, non c’è ospitalità.