Cibo e potere

Cibo e potere

A tavola con il potere

Pechino, 1972. In una sala del Great Hall of the People, sotto i lampadari imponenti e i ritratti solenni, si consuma uno dei pasti più carichi di significato del XX secolo: Richard Nixon cena con il premier cinese Zhou En Lai. È la prima visita di un presidente americano nella Cina comunista. I piatti sono calibrati con cura, il servizio impeccabile, i sorrisi studiati. Sul tavolo non ci sono solo anatra laccata e ravioli al vapore: ci sono decenni di ostilità, equilibri globali da ricalibrare, un futuro che si negozia in silenzio.

Quella cena segna l’inizio di una nuova era, le cui conseguenze si riverberano fino ai giorni nostri: l’avvicinamento tra USA e Cina, la ridefinizione della Guerra Fredda, l’apertura a un mondo multipolare. Ma prima che tutto questo diventi geopolitica, è un gesto di ospitalità, una mise en scène diplomatica che si gioca con bacchette e brindisi, sorrisi e sguardi. Un banchetto di potere, dove ogni dettaglio è messaggio.

Perché il potere si esercita anche a tavola. Anzi, spesso comincia proprio lì — tra un brindisi e un silenzio carico di significati, tra il gesto di servire e quello di essere serviti. Dalle corti rinascimentali alle cene di Stato, dai banchetti imperiali dove si stringono accordi e si decidono i destini di uomini e nazioni alla trattoria di provincia, il cibo non è mai solo nutrimento: è un linguaggio. E come ogni linguaggio, può includere o escludere, sedurre o intimidire, affermare gerarchie o rovesciarle.

Nel corso della storia, chi controllava il cibo controllava la società. I raccolti decidevano il destino degli imperi. Le spezie muovevano flotte e guerre, e finanziavano spedizioni intorno al mondo. Le ricette passavano di mano come codici sacri. Oggi, il potere del cibo si è fatto più sottile, ma non meno pervasivo: si insinua nelle narrazioni dei media, nei menù gourmet, nei riti dell’accoglienza. Lo vediamo nei riflettori puntati sugli chef, nei rating delle guide, nel ruolo sempre più strategico della sala.

Il potere di chi nutre

Chi prepara il cibo esercita un potere antico. Il cuoco di corte conosceva i gusti del sovrano meglio dei suoi ministri. Il capocuoco delle navi coloniali decideva chi mangiava e chi no, e in che ordine. Ancora oggi, la figura dello chef incarna un potere simbolico forte: può creare o negare, esprimere visione, imporre una gerarchia invisibile ma rigidissima. Dietro ai fornelli, si dirige un teatro in cui ogni movimento ha un senso. Anche chi serve gioca un ruolo cruciale. Il maître, il sommelier, il personale di sala sono guardiani del rituale. Regolano il tempo, lo spazio, la coreografia dell’esperienza. In certi contesti, un gesto della sala può amplificare o ridimensionare il potere della cucina. Il linguaggio del servizio è un codice sottile, fatto di tono, distanza, postura.

Ma non è solo la cucina professionale a detenere questo potere. Anche nelle case, chi cucina assume un ruolo centrale. Spesso è una figura femminile – madre, nonna, moglie – che attraverso il cibo educa, cura, plasma comportamenti. Nutrire può essere un gesto d’amore, ma anche di controllo affettivo, di riproduzione di ruoli, di trasmissione di valori. In molte culture, chi cucina decide cosa si mangia, come e quando: una forma di autorità quotidiana, silenziosa ma pervasiva.

Per secoli questo è stato – e in alcune parti del mondo lo è tuttora – l’unico spazio in cui le donne hanno potuto esercitare una forma di controllo, dove hanno avuto un ruolo, per quanto non riconosciuto e spesso bistrattato, in una società a trazione maschile. In cucina si costruivano identità familiari, si tramandavano memorie, si stabilivano ritmi di vita. E proprio lì, tra pentole e gesti ripetuti, si esprimeva un potere silenzioso ma profondo.

Oggi quel ruolo si è in parte trasformato, ma non è scomparso. Le donne hanno conquistato spazi pubblici, anche nelle cucine professionali – un tempo dominate dagli uomini – ma continuano spesso a portare sulle spalle il carico della cura domestica. La cucina resta un luogo ambivalente: può essere liberazione o prigione, vocazione o obbligo, espressione personale o fatica invisibile. E questo doppio registro merita di essere riconosciuto.

Nutre anche chi sceglie cosa offrire. Dietro un menù c’è sempre un’intenzione, talvolta un’agenda. Una cucina può includere un’identità o cancellarne un’altra, può educare, può imporre. Chi ha il potere di decidere cosa entra nel piatto, ha il potere di narrare il mondo a modo suo.

Cibo come controllo

Il cibo è sempre stato un mezzo di controllo. Non solo per la sua disponibilità, ma per il modo in cui viene distribuito, prezzato, raccontato. Governanti e imperi hanno usato il cibo per premiare o punire, per pacificare o sottomettere. Una carestia può essere naturale, ma spesso è il risultato di scelte politiche. Un embargo alimentare è una guerra silenziosa e spesso mortalmente efficace.

Oggi il controllo non si esercita più soltanto sulle materie prime, ma sull’intera catena di valore: dalla proprietà dei semi alla logistica, dal marketing alla narrazione culturale. Chi possiede la filiera, possiede anche la chiave del gusto. Le multinazionali del cibo non vendono solo prodotti: vendono dipendenza, abitudini, modelli alimentari difficili da scardinare.

Anche la narrazione gastronomica è un atto di potere. Definire cosa è “sano”, cosa è “autentico”, cosa è “cool” sposta equilibri culturali ed economici. Alcune cucine tradizionali vengono riabilitate solo quando sono reinterpretate da chef occidentali o servite in locali di lusso. Altre vengono marginalizzate, associate alla povertà, rese invisibili. Controllare il cibo significa controllare l’immaginario. E l’immaginario, spesso, è più potente della fame stessa.

Il potere a tavola

La tavola è un palcoscenico del potere. Non solo per ciò che si mangia, ma per chi è invitato, chi serve e chi resta fuori. Nei banchetti delle corti europee, la disposizione dei posti era calcolata al millimetro: la distanza dal sovrano indicava status, fiducia, alleanze. Ancora oggi, nelle cene diplomatiche o nelle sale dei grandi ristoranti, la posizione e il protocollo non sono mai casuali.

Il galateo nasce proprio come strumento di controllo sociale. Un codice che distingue chi “sa stare a tavola” da chi no. Un modo sottile per escludere, per ribadire appartenenze. Anche il ristorante, in fondo, è un sistema codificato: accoglienza, tono del servizio, mise en place, ritmo delle portate – tutto contribuisce a stabilire chi comanda e chi obbedisce, anche solo per una sera.

Il potere di sedersi a tavola ha anche una valenza simbolica profonda. Lo dimostra perfino il linguaggio religioso: “non son degno di partecipare alla tua mensa” – si dice nella liturgia cristiana – affermando implicitamente che mangiare insieme è un privilegio riservato a chi è puro, accettato, degno. La tavola, dunque, non è solo luogo di convivialità, ma anche di giudizio e redenzione, di inclusione e espulsione.

Ma c’è anche un potere più intimo, quasi invisibile: quello di chi invita. Invitare qualcuno a cena è un gesto carico di intenzionalità, un atto di ospitalità, certo, ma anche di scelta, a volte di seduzione, a volte di strategia. La tavola può unire, ma può anche escludere elegantemente.

In ogni caso, sedersi a tavola non è mai un gesto neutro. È una forma di messa in scena, una dichiarazione di valori, spesso una partita di ruoli.

Cibo, identità e soft power

Il cibo è uno degli strumenti più efficaci di soft power. Nessuna arma, nessun trattato internazionale ha la stessa forza seduttiva di un piatto condiviso. La cucina nazionale diventa così ambasciatrice culturale: pensiamo al sushi, alla pizza, al pad thai, che non solo riempiono i piatti, ma anche i racconti, le serie tv, le strategie di branding di interi Paesi.

Dietro ogni piatto c’è un’identità da affermare. Un modo di dire: “noi siamo questo”. Eppure, la cucina è anche uno spazio di negoziazione. Chi decide cosa è autentico? Chi può rivendicare una ricetta, uno stile, un’origine? Spesso l’autenticità diventa una maschera, uno strumento di potere culturale, capace di escludere, di semplificare, di cristallizzare cucine vive in cartoline per turisti.

Il soft power gastronomico si muove anche sul piano commerciale e mediatico: guide, premi, piattaforme, food influencer. Chi ha il potere di narrare il cibo finisce per orientare gusti, investimenti, flussi turistici. Alcuni piatti vengono canonizzati, altri rimossi o ridicolizzati. Le cucine del Sud del mondo, spesso trattate come “etniche”, devono lottare per ottenere lo stesso rispetto concesso ai grandi nomi europei.

Ma c’è anche un lato fertile in tutto questo. Il cibo può essere ponte, traduzione, resistenza culturale. Un linguaggio che, pur manipolato, conserva la capacità di connettere le persone.

Hospitality e micro-dinamiche di potere

In un ristorante, il potere non si esercita solo in cucina. Anzi, spesso si gioca in sala, nei dettagli che il cliente non sempre vede, ma che determinano l’esperienza complessiva. Chi comanda davvero? Il proprietario? Lo chef? Il maître? La verità è che l’hospitality è un sistema di equilibri, dove ogni gesto è un insieme composto di autorità e servizio.

Il personale di sala ha un potere particolare: è il tramite tra la visione della cucina e il vissuto del cliente. Ha la possibilità di modulare l’esperienza, di salvare una serata storta, di trasformare un pasto in un ricordo. Ma troppo spesso viene sottovalutato, trattato come funzione e non come presenza consapevole.

Il linguaggio del servizio – fatto di tono, tempi, distanze – può creare o distruggere un’atmosfera. Chi sa gestire questi codici sa esercitare un potere discreto, raffinato, spesso invisibile. Anche per questo, nelle strutture di alto livello, la sala è tanto importante quanto la cucina: è il luogo dove si costruisce la relazione con il cliente, dove il gesto arricchisce e contestualizza.

E poi ci sono le sale d’albergo, i lounge esclusivi, i club privati: ambienti in cui l’hospitality diventa teatro del potere sociale, specchio delle gerarchie, delle sicurezze e delle insicurezze di chi li abita. In questi spazi, saper accogliere con grazia è una forma di autorità ferma ma gentile.

Il piatto come specchio del mondo

In apparenza, mangiare è un gesto semplice. Un bisogno primario, una routine quotidiana. Eppure, ogni volta che ci sediamo a tavola, stiamo partecipando a un rituale che riflette equilibri di potere, scelte culturali, storie invisibili. Dietro ogni piatto servito, c’è una filiera, una decisione, una narrazione. E anche dietro ogni gesto di servizio, c’è una forma di autorità e di guida, spesso più significativa di quella dichiarata.

Il cibo unisce e divide, eleva e umilia, conferma e ribalta. È un linguaggio universale, ma anche uno strumento di distinzione, di controllo, di espressione individuale e collettiva. Il potere si nasconde nei dettagli: in una ricetta tramandata o reinventata, in un posto assegnato o negato, in una parola detta o taciuta da chi ci serve. Forse è per questo che amiamo così tanto raccontare il cibo: perché attraverso di esso raccontiamo anche noi stessi, i nostri desideri, le nostre relazioni, le nostre fragilità. E ogni tavola, se osservata da vicino, non è altro che un microcosmo del mondo.

Mister Godfrey

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