
Nye, il Soft Power e la cultura come risorsa geopolitica
Quando Joseph Nye coniò l’espressione soft power, forse non immaginava che un giorno avremmo parlato di questo concetto a proposito di cibo, street food e serie televisive – anche se aveva considerato il peso specifico delle produzioni cinematografiche di Hollywood. Eppure è andata così. Se lo hard power – militare, economico, coercitivo – mostra i muscoli, quello soft conquista con la simpatia, con l’immaginario, con tutto ciò che spinge gli altri ad ascoltare, imitare, desiderare.
Il concetto non era del tutto nuovo: da secoli, imperi e potenze hanno cercato di conquistare le menti e i cuori prima ancora che i territori. Ma Nye ha avuto il merito di dare a questa intuizione una cornice teorica moderna, adatta a un mondo in cui le armi della persuasione culturale contano almeno quanto quelle tradizionali.
La sua scomparsa è l’occasione per riflettere su come la teoria abbia modellato la pratica, al punto da diventare strategia diplomatica, comunicazione istituzionale, branding nazionale. Oggi il soft power si misura anche nelle scelte alimentari che compiamo quotidianamente: dal sushi confezionato di un supermercato londinese, al kimchi presente sulle tavole parigine,al pad thai mangiato a Milano.
Il mio precedente articolo, Cibo e potere, ha sfiorato questo tema, mostrando come la cucina non sia mai neutra. Ma ora voglio andare oltre: osservare da vicino come alcuni Paesi – Thailandia, Giappone, Corea del Sud e Brasile – abbiano usato (o stiano imparando a usare) la gastronomia come strumento di influenza culturale globale, con risultati diversi, ma sempre interessanti.
Il cibo come ambasciatore: definire la gastro-diplomacy
Quando si parla di soft power, si tende a pensare a film, musica, moda. Ma da almeno vent’anni, studiosi e governi hanno cominciato a riconoscere anche il cibo come uno strumento di diplomazia culturale. Nasce così il concetto di gastro-diplomacy: l’uso strategico della cucina per costruire ponti emotivi, migliorare l’immagine di un Paese, creare consenso, curiosità e attrazione attraverso i sapori.
La gastro-diplomazia si distingue dal semplice export gastronomico: non si tratta solo di far conoscere una cucina, ma di associarla a un’identità positiva. È un’operazione a metà tra marketing, diplomazia e antropologia culturale. L’obiettivo è quello di far sì che, assaporando un piatto, lo straniero assapori anche un’immagine – raffinata, accogliente, moderna, tradizionale, a seconda dei casi – del Paese d’origine.
Manuali di policy, progetti governativi, fondi stanziati per l’apertura di ristoranti all’estero, chef trasformati in ambasciatori culturali: tutto questo rientra in una strategia più ampia. Se i vecchi ambasciatori parlavano con discorsi, i nuovi si esprimono attraverso con curry, sushi e cibo di strada. In un’epoca di iperconnessione e saturazione informativa, il cibo comunica meglio delle parole. È un’esperienza sensoriale, affettiva, collettiva. Ed è per questo che funziona.
Thailandia – Il cibo come biglietto da visita
Pochi Paesi hanno compreso e applicato i principi della gastro-diplomacy con l’efficacia e la visione strategica della Thailandia. Già nei primi anni 2000, il governo lanciò il programma Global Thai, un piano strutturato e ambizioso volto a promuovere la cucina thailandese nel mondo. L’obiettivo era chiaro: far coincidere il sapore del pad thai con l’immagine della Thailandia stessa, presentando la nazione come esotica ma accessibile, tradizionale ma dinamica, sorridente e accogliente.
In altre parole, ogni ristorante thai all’estero non è solo un’attività commerciale, ma una micro-ambasciata culturale. Il progetto prevedeva incentivi per gli imprenditori, linee guida estetiche e culinarie, persino format standardizzati con nomi evocativi come Elephant Jump o Cool Basil, pronti per essere replicati in ogni angolo del pianeta. Si trattava non solo di esportare piatti, ma di codificare un immaginario: il curry verde come comfort food globale, il sorriso del cameriere come estensione del brand “Land of Smiles”.
Recentemente, la Thailandia ha intensificato i suoi sforzi di promozione del soft power a livello internazionale. Il Primo Ministro Paetongtarn Shinawatra ha intrapreso un tour europeo, visitando il Regno Unito e Monaco dal 21 al 25 maggio 2025, con l’obiettivo di promuovere la cucina thailandese, la cultura e il Muay Thai come parte della strategia di soft power del Paese. Durante il suo viaggio, ha partecipato a eventi chiave come l’ITB Berlin 2025, la principale fiera del turismo mondiale, dove ha presentato la visione della Thailandia per un turismo sostenibile e ad alto valore aggiunto, sottolineando l’importanza del soft power nel posizionare il Paese come destinazione globale di primo piano.
A differenza di altri Paesi, che lasciano la diffusione della propria cucina alla diaspora o all’iniziativa individuale, la Thailandia ha scelto la pianificazione statale, dimostrando che il cibo può essere uno strumento geopolitico tanto quanto un gasdotto o una base militare. E i risultati parlano chiaro: in meno di vent’anni, la cucina thai è entrata stabilmente nei menù urbani del mondo, da New York a Berlino, da Melbourne a Milano. Il pad thai è diventato una bandiera – ma una bandiera che non divide, bensì invita, accoglie, seduce. E mentre il pad thai si trasforma in simbolo pop, il soft power thailandese si rafforza, morso dopo morso.
Tuttavia, secondo un’analisi del Bangkok Post, la strategia di soft power della Thailandia ha mostrato alcune lacune. L’articolo sottolinea che, sebbene il Paese abbia investito in campagne turistiche e promozione culturale, manca una visione strategica chiara su ciò che il soft power dovrebbe raggiungere e sui valori che la Thailandia intende proiettare. Inoltre, l’approccio attuale è stato descritto come “tutto stile, senza sostanza”, indicando che senza coerenza politica, leadership credibile e uno scopo morale, gli sforzi di soft power rischiano di diventare esportazioni vuote, facilmente consumate e rapidamente dimenticate. E questo è un rischio che accompagna ogni azione di soft power fine a se stessa, a prescindere da quale Paese la intraprenda.
Giappone – La raffinatezza al servizio del brand nazionale
Il Giappone non ha bisogno di vendere la propria cucina. È la cucina – o meglio, l’immaginario estetico che la circonda – a vendere il Giappone. In nessun altro Paese, il cibo è così profondamente intrecciato con i concetti di armonia, precisione, silenzio, equilibrio. L’assunzione del pasto, qui, è un gesto che sfiora il sacro, una pratica estetica prima ancora che alimentare.
Nel 2013, l’UNESCO ha riconosciuto il washoku – la cucina giapponese tradizionale – come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Ma al di là del riconoscimento ufficiale, è l’intera percezione globale del cibo giapponese ad aver contribuito alla costruzione di un soft power duraturo, elegante, quasi invisibile. Il sushi, che fino agli anni ’80 era poco noto al di fuori del Giappone, è oggi sinonimo di raffinatezza contemporanea, di minimalismo salutare, di cosmopolitismo borghese.
Ma non c’è solo sushi: ramen, izakaya, kaiseki, wagashi, matcha. Ogni segmento della gastronomia giapponese è diventato un canale narrativo, capace di veicolare l’identità di un Paese che sa presentarsi al mondo come avanzato ma radicato, high-tech eppure rispettoso delle radici. I ristoranti giapponesi – anche quelli gestiti da stranieri – replicano spesso non solo le ricette, ma anche l’esperienza estetica complessiva: i piatti in ceramica grezza, le luci soffuse, i gesti misurati, il silenzio come linguaggio.
In questo senso, la gastro-diplomazia giapponese è tanto più potente quanto meno appare intenzionale. È una presenza silenziosa e autorevole, come quella di un maestro zen che insegna senza parlare. Ed è proprio questo tipo di approccio ha reso la cucina giapponese un benchmark di riferimento, un metro di paragone per ogni altra esperienza gastronomica globale.
Corea del Sud – K-cibo e la strategia pop
Se la Thailandia ha pianificato la propria gastro-diplomazia e il Giappone l’ha incarnata con naturalezza, la Corea del Sud l’ha orchestrata come una sinfonia culturale, fondendo cibo, musica, cinema e lifestyle in un unico potente flusso di soft power: l’onda coreana, o Hallyu. Qui il cibo non agisce da solo, ma è parte di una strategia culturale integrata in cui nulla è lasciato al caso.
Nel momento in cui le serie tv coreane (K-drama) e il fenomeno globale del K-pop iniziavano a conquistare l’Occidente, piatti come il kimchi, il bibimbap, il bulgogi e lo street food di Seul facevano la loro comparsa nei mercati internazionali, nei ristoranti fusion, nei video su TikTok. Non è stato un effetto collaterale, ma il frutto di una politica culturale ben calibrata: il cibo come estensione del brand Corea, affiancato a idoli pop, film pluripremiati e prodotti tecnologici.
A partire dal 2009, il governo coreano ha lanciato campagne ufficiali per promuovere il “Hansik” (la cucina tradizionale coreana) all’estero, stanziando fondi per eventi, corsi di cucina, borse di studio per chef, supporto alle aperture di ristoranti e campagne pubblicitarie coordinate. In parallelo, le celebrità coreane mangiavano piatti tipici in diretta social, rafforzando un circolo virtuoso tra intrattenimento, identità e mercato.
La forza del modello sudcoreano sta nella sua capacità di creare desiderio: non è solo il cibo a essere attraente, ma l’intero lifestyle che lo circonda. Mangiare coreano diventa così un atto di adesione a un’estetica, a un modo di vivere, a una cultura percepita come fresca, moderna, dinamica. È una gastro-diplomazia pop, ma non per questo meno efficace: funziona perché parla la lingua dei consumatori globali, perché seduce senza spiegare, lasciando che sia l’esperienza stessa – gustativa, visiva, emozionale – a fare il lavoro.
Brasile – La diaspora, l’affettività e il potenziale inespresso
A differenza di Thailandia, Giappone e Corea del Sud, il Brasile non ha mai messo in campo un programma di gastro-diplomazia formalizzato. Eppure, pochi Paesi al mondo possono vantare una cucina così affettiva, inclusiva, sensoriale, capace di evocare non solo un territorio, ma uno stile di vita fatto di calore, generosità, mescolanza.
Il Brasile è un crocevia vivente di culture: africana, indigena, portoghese, araba, italiana, giapponese. Questa mescolanza ha generato una cucina meticcia e festosa, in cui piatti come la feijoada, il moqueca, il pão de queijo o l’acarajé raccontano storie di schiavitù, colonizzazione, resistenza, migrazione. È una cucina che abbraccia, che si consuma spesso in gruppo, nei giorni di festa, in casa, nelle strade animate. Non ha la perfezione formale del kaiseki né un’identità promossa da una strategia governativa, ma ha qualcosa di più difficile da costruire a tavolino: un’anima riconoscibile.
Nelle città europee, i ristoranti brasiliani nati dalla diaspora hanno cominciato a costruire un ponte emotivo con chi cerca il calore di una cultura diversa. Non è raro che l’approccio brasiliano al servizio, al cibo, all’accoglienza venga ricordato per la sua umanità, per la sua allegria contagiosa, per il modo in cui fa sentire “a casa” anche a migliaia di chilometri di distanza.
Eppure, proprio qui si cela il paradosso: pur avendo tutti gli elementi per una gastro-diplomazia di successo – ingredienti iconici, storie potenti, una cultura culinaria ricchissima – il Brasile non ha ancora capitalizzato pienamente questo potenziale sul piano delle politiche culturali internazionali. Manca una narrazione unificata, una regia strategica, un investimento strutturale che trasformi il “gusto del Brasile” in soft power sistemico, capace di generare influenza, attrazione e valore geopolitico.
In un mondo che cerca autenticità e calore, il Brasile ha già vinto sul piano emozionale. Ora resta da capire se vorrà – e saprà – tradurre tutto questo in una forma di diplomazia culturale più consapevole e coordinata.
Le cucine come immaginari geopolitici
Mangiare non è mai solo un atto fisiologico. È un gesto culturale, simbolico, relazionale. Ogni piatto racconta una storia e una particolare visione del mondo. Ecco perché oggi le cucine sono diventate immaginari geopolitici: mappe emotive che i Paesi tracciano nei palati degli altri per raccontarsi meglio, o per essere desiderati.
Nel caso della gastro-diplomazia, il cibo non è solo patrimonio culturale da conservare e far conoscere, ma un linguaggio strategico. Il sushi dice: “siamo raffinati e millenari”; il pad thai: “siamo accoglienti, sensuali, vitali”; il kimchi: “siamo dinamici, energici, fieri”; la feijoada: “siamo mescolanza, festa, resistenza”. Ogni boccone, ogni assaggio contiengono un messaggio implicito, una mini-narrazione nazionale, una promessa d’identità. Non è un caso che gli stessi piatti vengano spesso resi più “presentabili” o addolciti nel gusto per il pubblico internazionale: è la diplomazia del palato, dove anche l’autenticità diventa una questione negoziabile.
Questi immaginari non nascono per caso: sono costruiti, talvolta coltivati con cura, altre volte lasciati germogliare spontaneamente. Ma tutti contribuiscono a plasmare la reputazione internazionale di un Paese, a influenzarne la percezione globale. E poiché viviamo in un mondo sempre più piegato alla cosiddetta “narrazione” – in cui le identità si raccontano, si vendono, si mettono in scena – il piatto diventa un dispositivo semiotico potente, capace di dire molto più di quanto sembri.
Cucinare per gli altri è, in fondo, un atto di fiducia. Accettare il cibo di un altro è un atto di apertura. In questo scambio – semplice e profondo – si gioca una parte della diplomazia contemporanea, più efficace di mille parole, perché più diretta, più umana, più memorabile.
L’eredità di Nye e il “piatto come messaggio”
Joseph Nye ci ha insegnato che il potere non si esercita soltanto con la forza o con la paura, ma anche – e forse soprattutto – con il fascino dell’esempio. Oggi, questa lezione risuona più che mai nel modo in cui i Paesi si raccontano e si rappresentano attraverso la cultura. E tra le tante forme di racconto, il cibo è quella che penetra più profondamente e immediatamente, perché non parla solo alla mente, ma al corpo, ai sensi, alla memoria.
La gastro-diplomazia è una delle espressioni più efficaci di soft power contemporaneo: ha la forza di sedurre senza voler convincere, di attrarre senza spiegare, di lasciare un’impronta indelebile senza parole. Che si tratti della raffinatezza giapponese, della strategia pop coreana, della calda spontaneità brasiliana o dell’efficienza pianificata della Thailandia, ogni esperienza gastronomica costruisce una relazione. E ogni relazione è, in fondo, una forma di influenza.
Il potere di un piatto non sta solo nel suo sapore, ma nella narrazione che lo accompagna. Il modo in cui viene presentato, servito, condiviso. Il gesto con cui viene offerto dice qualcosa sul mondo che rappresenta. Per questo oggi non possiamo più separare diplomazia e cultura, né cultura e cucina: si tratta di sistemi interconnessi, che si rafforzano a vicenda. E chi sa cogliere questa interdipendenza ha un vantaggio strategico, prima ancora che commerciale.
L’Italia, in tutto questo, gioca un ruolo ambiguo. Possiede una delle cucine più amate e replicate al mondo, ma spesso si affida al mito della sua fama piuttosto che a una regia culturale organica. L’immagine dell’Italia passa ancora più attraverso la carbonara e la pizza che non attraverso le politiche pubbliche. Ma in un mondo dove la competizione culturale è sempre più agguerrita, anche noi dovremmo forse chiederci: vogliamo continuare a essere simboli inconsapevoli o diventare narratori consapevoli della nostra identità gastronomica?
L’eredità di Nye ci invita a riflettere proprio su questo: chi influenza davvero il mondo non è chi grida più forte, ma chi sa farsi ricordare. E pochi gesti sono memorabili come un piatto condiviso.