Il cameriere venditore (a sua insaputa)

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Una volta il cameriere serviva. Ospitava, accompagnava, consigliava, persino intratteneva. Era l’anello di congiunzione tra la cucina e il cliente, il volto umano della ristorazione. Oggi, invece, il cameriere vende. Ma non vende come un bravo commerciale, formato e premiato: vende a sua insaputa, o peggio, per ordine superiore, senza commissioni, senza premi produzione, senza nemmeno un grazie.

Il nuovo mantra aziendale, sussurrato nei briefing con aria di chi ha appena finito di leggere un manuale di marketing – o più probabilmente una storia su Instagram su come aumentare il fatturato in 10 mosse – è più o meno questo: “Non sei qui solo per servire, sei qui per vendere”. E allora via con l’up-selling coatto: spingi il secondo piatto, offri l’acqua premium, suggerisci il vino più costoso — anche se non ci credi, anche se sai che quel cliente è venuto solo a mangiare.

Tutto questo, ovviamente, senza strumenti veri. Nessuna formazione sulle tecniche di vendita, nessuna condivisione strategica, nessun coinvolgimento reale. È solo un ordine che scende dall’alto, spesso da parte di chi in sala non ci mette piede da anni. E così, mentre lo chef si prende la gloria (e magari il bonus di fine trimestre), tu cerchi di convincere il tavolo dodici a prendere un antipasto in più, solo per sentirti dire che “non hanno tanta fame”. Il risultato? Non solo non sei premiato, sei colpevolizzato se non vendi. E se osi chiedere un incentivo, ti rispondono con la solita massima aziendale: “Qui siamo una squadra”. Certo. Solo che in questa squadra qualcuno fa gol, e qualcun altro si rompe la schiena per recuperare i palloni — gratis.

Vendere sì, ma a gratis

In ogni altro settore, vendere significa guadagnare. Commissioni, bonus, premi produzione, incentivi a raggiungere gli obiettivi. Se vendi un’auto, prendi una percentuale. Se vendi un pacchetto turistico, hai il tuo margine. Se vendi un abbonamento, scatta il premio. In sala, invece, niente di tutto questo.
Hai fatto prendere al cliente una bottiglia da 90 euro? Bravo. Il tuo premio è… la soddisfazione personale. E forse, se sei fortunato, una pacca sulla spalla da parte del manager — che però ti chiederà lo stesso di sparecchiare in fretta perché il tavolo va girato.

Non c’è una voce in busta paga che rifletta quanto hai portato all’azienda. Nessun sistema di riconoscimento strutturato, nessuna condivisione dei risultati. A volte, anzi, l’unico premio è dover formare il nuovo arrivato, quello che prende il tuo stesso stipendio ma non ha mai sentito parlare di fermentazioni, tannini o dry aging. Il cameriere diventa così un venditore o un consulente gastronomico non retribuito, uno storyteller della cucina che lavora a provvigione… per conto terzi. E se osi sollevare il problema, ti rispondono che “è il tuo lavoro”. Come se “lavoro” fosse sinonimo di “stai zitto e pedala, che sei fortunato a ricevere uno stipendio”.

Vendere o servire?

Il problema, a un certo punto, non è solo economico. È umano. Perché puoi anche accettare di vendere, se almeno venissi trattato da venditore. Ma qui sei chiamato a fare marketing emozionale mentre corri fra un tavolo e l’altro, con le mani occupate, il sorriso incollato alla faccia e i piedi che ti fanno ululare dal dolore. Devi “raccontare il piatto” anche se lo chef l’ha cambiato cinque minuti prima senza avvisarti. Devi far sembrare ogni proposta spontanea, ogni suggerimento genuino, anche quando dietro c’è l’ennesima direttiva del direttore, preoccupato per il food cost e la media scontrino.

Il risultato? Una sottile schizofrenia professionale. Da una parte dovresti essere un consulente esperto, capace di condurre il cliente verso un’esperienza memorabile. Dall’altra sei trattato come un mero esecutore, incaricato di piazzare più coperti, più dolci, più margine.

Ma attenzione: il cliente non è stupido. Se percepisce che lo stai “spingendo” verso qualcosa, si irrigidisce. Si chiude. Sente odore di trappola. Ed è lì che il rapporto si incrina: non sei più l’alleato che gli fa vivere un bel momento, sei l’ennesimo venditore con il sorriso stampato in faccia da contratto.
E questo, per chi ha scelto di lavorare nell’accoglienza, è un piccolo tradimento quotidiano. In sala, la fiducia è tutto. Ma se vendi a comando, senza crederci, quella fiducia diventa merce di scambio. E tu diventi una caricatura del professionista che vorresti essere.

Formazione? Meglio l’intuito. O l’istinto di sopravvivenza.

“Dovete fare up-selling.”
“Dovete raccontare meglio i piatti.”
“Dovete valorizzare la carta dei vini.”
Perfetto. Ma come, esattamente? In base a quali strumenti, con quale preparazione, con quale supporto?
Spesso la risposta è un grande classico della ristorazione: il nulla cosmico. Nessun corso, nessuna scheda tecnica aggiornata, nessuna prova dei piatti, nessun confronto vero. Al massimo un briefing sbrigativo prima del servizio, tra un caffè e un richiamo per la divisa stropicciata.

Il cameriere dovrebbe vendere come un professionista, ma lo fa con gli strumenti di un dilettante. Affidandosi al carisma, alla parlantina, al vecchio trucco del “questo oggi lo consiglia lo chef” — anche se lo chef in questione ti guarda come se avessi appena bestemmiato.
E se chiedi un minimo di formazione continua, ti dicono che non c’è tempo, che bisogna pensare al servizio, , che si impara facendo – è il famigerato training on the job. che “stare in sala è cme andare a scuola”. Vero. Ma nelle scuole serie almeno ci sono insegnanti, materiali, metodo. Qui c’è solo il caos, e la pretesa che tu ci galleggi dentro col sorriso sulle labbra. Così si va avanti a tentoni, improvvisando, bruciando potenziale. E ogni volta che un collega se ne va, qualcuno si limita a dire: “Non era portato”. No, magari non era supportato.

America vs Europa: stessi sorrisi, destini opposti

Negli Stati Uniti, il cameriere vende eccome. Ma c’è una piccola differenza: lì conviene. Grazie al sistema delle mance proporzionali, chi lavora in sala ha tutto l’interesse a far salire il conto, e lo fa con una certa fierezza. Non solo: la vendita è parte organica del lavoro, insegnata, praticata, spesso incentivata anche con bonus e premi. Nei ristoranti di fascia media o alta, un bravo cameriere può guadagnare più di un impiegato. E nessuno si stupisce. È una carriera, non un ripiego.

In Europa — e in particolare nel Sud Europa — la situazione è, diciamo, più creativa. Anche qui si chiede al personale di fare up-selling, consigliare, valorizzare. Solo che non esiste nessuna struttura retributiva che accompagni queste richieste. Le mance sono sporadiche, a volte condivise, a volte fagocitate da sistemi poco trasparenti. Lo stipendio è fisso e spesso modesto, scollegato da qualsiasi performance. L’unico vero premio è forse… una chiusura anticipata se la serata va bene.

La differenza? Negli Stati Uniti il cameriere che vende di più guadagna di più. In Europa, spesso, vende per qualcun altro, mentre resta al punto di partenza. E deve anche ringraziare per “l’opportunità di crescere”. Vendere non è il problema. Il problema è farlo in un sistema che pretende senza dare, che pretende passione, preparazione, flessibilità — ma non restituisce nulla di tutto questo.

Un’altra strada è possibile (ma va pagata)

Il punto non è smettere di vendere. Un cameriere preparato, appassionato, vende naturalmente. Racconta un vino, suggerisce un piatto fuori menù, costruisce un percorso per il cliente come un sarto fa con un abito. Lo fa perché conosce il prodotto, ci crede, e sa che quel gesto fa parte dell’accoglienza. Ma tutto questo funziona solo se alla base c’è un riconoscimento reale, non un vago “bravo” alla fine del turno, quando c’è.

Vogliamo che il personale in sala migliori le vendite? Benissimo. Ma allora servono incentivi chiari, formazione continua, coinvolgimento reale. Serve trattare chi lavora in sala come un professionista, non come un esecutore multitasking da spremere e dimenticare. Serve — diciamolo — redistribuire valore. Anche economico.

Perché se lo scontrino medio sale grazie alla sala, è giusto che una parte del margine torni a chi ha fatto quel lavoro invisibile ma fondamentale. E se un ristorante funziona perché c’è un cameriere che sa creare relazioni, fidelizzare clienti e dare senso a un’esperienza, allora è il momento di smettere di chiamarlo semplicemente “cameriere” e cominciare a chiamarlo per quello che è: una colonna portante del locale. E, magari, pagarlo di conseguenza.

Mister Godfrey

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