Burnout

Burnout

Il grande rimosso

C’è un grande rimosso nel mondo della ristorazione, una zona d’ombra che tutti conoscono ma che nessuno ama nominare: il burnout. Non è una moda, né un’invenzione dei “nuovi deboli”. È una realtà trasversale che colpisce cuochi, camerieri, sommelier, bartender, maître e anche qualche titolare che, tra un doppio turno e un crollo di prenotazioni, si ritrova a fissare lo scontrino medio come se fosse un elettrocardiogramma piatto.

Nel nostro settore — fatto di passione, adrenalina, rituali, piatti perfetti e sale da domare con il sorriso — il burnout si nasconde bene. È travestito da vocazione, da “bisogna stringere i denti”, da “questo mestiere lo fai solo se lo ami”. Peccato che anche l’amore, quando non è ricambiato, logora. E se la brigata è sfiancata, il servizio si trasforma in un campo minato e il giorno libero da godere diventa una leggenda metropolitana, forse è il momento di chiederci: a che prezzo?

Perché no, non è normale essere sempre stanchi.
Non è normale piangere in bagno prima del servizio.
Non è normale vivere di caffè, ibuprofene, sigarette e altre “sostanze”.
Non è normale aspettare la stagione o le ferie “per riprendersi” e poi crollare appena si ritorna in pista.

Quello che è normale, o meglio umano, è riconoscere quando si è oltre il limite. E imparare — come settore — a parlarne. Senza retorica, senza vergogna e senza aspettare che sia troppo tardi.

Sala e cucina: due mondi, stesso inferno

Cucina e sala. Due emisferi spesso separati da una porta basculante e da un linguaggio diverso, ma uniti dallo stesso destino: la pressione costante.
Da un lato si grida, si corre, si taglia, si brucia, si impiatta con una precisione chirurgica. Dall’altro si sorride, si ascolta, si memorizza, si improvvisa, si gestisce l’umore dei clienti (e spesso anche quello degli chef).

Il cuoco ha il corpo a pezzi: mani rovinate, schiena spezzata, ritmi disumani. Spesso si muove in un ambiente che non perdona errori, dove la gerarchia è rigida e l’imprevisto è nemico giurato. L’orgoglio professionale si misura in ore di lavoro non pagate e in piatti “perfetti” che spariscono in tre minuti. Non si parla. Si esegue. E se il fuoco è troppo alto — dentro o fuori dalla padella — si va avanti lo stesso. Fino a quando?

Il cameriere, invece, ha il sorriso a pezzi. Esposto, vulnerabile, costretto a tradurre ogni desiderio (espresso o sottinteso) del cliente in un servizio impeccabile – si spera. È il cuscinetto umano tra la cucina e la sala, tra la tensione del pass e le pretese del tavolo 4. Deve sapere tutto, ricordare tutto, anticipare tutto. Essere empatico ma non invadente, formale ma non rigido, veloce ma elegante. E intanto assorbe. Rabbia, stress, umiliazioni – apparentemente senza colpo ferire.

Entrambi — cuochi e camerieri — sono in scena. Ogni servizio è una performance, spesso recitata in apnea. Ma a differenza del teatro, non c’è un sipario. Non ci sono prova che tengano e non c’è l’applauso finale, se non quando il cliente lascia una mancia (quando la lascia).

Il burnout, in sala come in cucina, è un cortocircuito tra la dedizione e l’impossibilità di fermarsi. Tra la passione e l’incapacità di respirare. E il problema è che, a furia di far finta di niente, ci si abitua. Fino a quando non si sente più nulla. E a quel punto non è più solo stanchezza. È disconnessione.

I sintomi che nessuno vuole vedere

Il problema del burnout è che non arriva all’improvviso. Si insinua piano, camuffato da stanchezza normale, da “è solo un periodo”, da “dai che poi arriva il giorno libero”. Ma intanto scava e logora.

I primi segnali sono sottili: ti svegli già stanco, perdi la pazienza più in fretta, il caffè non basta più. Poi arrivano le dimenticanze, l’irritabilità, quel senso di apatia che ti fa servire un piatto come se fosse un oggetto qualunque, senza neanche guardarlo. O peggio: senza più guardare il cliente.

Cominci a sentirti svuotato, anche quando tutto funziona. Il locale è pieno, il servizio fila liscio, ma tu non provi nulla. Nessuna soddisfazione. Nessun coinvolgimento. Solo il desiderio che finisca in fretta. Sempre più in fretta.

Altri segnali?
– L‘ironia cinica che da valvola di sfogo diventa il linguaggio abituale.
– Il distacco emotivo, che rende ogni cliente “solo un altro tavolo”.
– L’esaurimento fisico, che ti accompagna anche nei giorni liberi.
– L’uso eccessivo di sostanze: caffè per carburare, alcol per dormire, sigarette come punteggiatura emotiva tra un ordine e l’altro.

E poi c’è il sintomo peggiore, quello che spesso passa inosservato perché non fa rumore: la perdita di passione. Quando smetti di amare ciò che facevi con orgoglio. Quando inizi a pensare che forse hai sbagliato tutto. Quando sogni di mollare tutto e andare a fare il contadino — e non è più una battuta.

Ma il burnout, a differenza della semplice stanchezza, non passa con una notte di sonno. E non si cura cambiando solo ristorante. Serve tempo, consapevolezza, e soprattutto un ambiente che sappia riconoscere il problema. Il che, purtroppo, è ancora un’eccezione.

Perché succede (davvero)?

Il burnout nella ristorazione non è (solo) colpa del cliente che chiede il risotto alle 23 o della stagione che “quest’anno è partita male”. Succede perché l’intero sistema è progettato per spremere le persone, spesso nel nome dell’eccellenza, dell’efficienza o — peggio ancora — della “passione”.

Succede perché si lavora troppo, troppo a lungo, troppo spesso. Turni massacranti, orari spezzati, doppi turni senza doppi compensi. Giorni liberi fluttuanti, ferie rimandate, malattie viste come un tradimento verso colleghi e proprietà. E tutto questo viene vissuto come normale o addirittura necessario. Se reggi, sei dei nostri, sei degno. Se crolli, forse non sei tagliato per questo mestiere.

Succede anche perché la cultura del lavoro in questo settore è ancora intrisa di maschilismo tossico e di una certa mitologia del sacrificio. In cucina si urla, si obbedisce, si soffre — e guai a lamentarsi. In sala si stringono i denti, si gestisce tutto con grazia, anche quando dentro si sta implodendo. La sofferenza diventa una medaglia e il burnout, un prezzo da pagare in silenzio.

E poi c’è il vuoto formativo: quanti sanno davvero riconoscere i segnali del burnout? Quanti ristoratori sanno cosa vuol dire gestire un team sotto stress, o creare un ambiente di lavoro sano? La verità è che molti locali — anche i migliori — sono organizzati per spremere il massimo in tempi minimi. Non per durare. E nemmeno per far durare le persone che ci lavorano dentro.

Infine, ci sono le aspettative irrealistiche: il cliente che vuole sentirsi al centro dell’universo (e magari anche risparmiare), il titolare che pretende il massimo con il minimo sforzo economico, lo staff che cerca di non deludere nessuno. Risultato? Una bomba a orologeria pronta ad esplodere.

Ecco perché il burnout non è una fragilità individuale, ma una falla sistemica. Un effetto collaterale di un modo di lavorare che premia la resistenza più della competenza, e la sopportazione più della lucidità.

E ora che si fa? (Spoiler: non basta fare yoga)

Parlare di burnout nella ristorazione non serve a piangersi addosso, ma a riportare la persona al centro del lavoro. Non basta dire “siamo una famiglia” se poi quella famiglia non ti ascolta, non ti tutela e ti chiede di sacrificarti ogni giorno come se fosse l’ultimo, in cambio di un piatto di lenticchie.

Serve un cambio di prospettiva, concreto, quotidiano. E sì, richiede impegno, ma anche buon senso. Ecco da dove si può cominciare:

Ripensare i turni, evitarne i doppi e gli orari spezzati ogni volta che è possibile.
Introdurre pause vere, non solo “prendi un caffè al volo mentre impiatti”.
Riconoscere il valore della formazione, anche sulla gestione dello stress e del team.
Normalizzare il dialogo: chiedere “come stai” al collega, e ascoltare davvero la risposta.
Creare ambienti non tossici, dove l’autorità non è sinonimo di abuso e la leadership non si misura in urla o manipolazione.

E per chi guida una brigata, una sala, o un’intera struttura: ricordarsi che la qualità del servizio non dipende solo da cosa arriva al tavolo, ma da come si lavora dietro le quinte. Un team stanco, frustrato, esausto non potrà mai offrire un’esperienza memorabile degna di questo nome. Al massimo, un compitino ben eseguito. Fino al prossimo crollo.

E no, il burnout non si risolve con una lezione di yoga, un aperitivo post-servizio o una frase motivazionale sul gruppo WhatsApp. Serve cultura, tempo, ascolto e un po’ di umiltà. Serve ridefinire cosa intendiamo per eccellenza: non più solo performance, ma sostenibilità umana.

Chi lavora in questo settore lo fa spesso per amore. Ma anche l’amore ha bisogno di rispetto, cura e limiti. Altrimenti non è amore: è sfruttamento e manipolazione.

Mister Godfrey

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