
In principio fu il QR code.
Come spesso accade tutto era cominciato con una buona intenzione, durante il Covid: evitare contatti superflui, garantire la sicurezza dei clienti, velocizzare il servizio. Durante la pandemia, il QR code è diventato un alleato indispensabile per i ristoratori, il personale e i clienti. Ma quello che doveva essere un rimedio temporaneo si è trasformato, in molti casi, in una soluzione permanente. Oggi, più che uno strumento utile, è diventato il bersaglio preferito di comici e clienti insofferenti: “Per ordinare serve il telefono. Per parlare con qualcuno… serva fortuna.”
Non è solo questione di nostalgia per il menù cartaceo. Il punto è che spesso, dietro la scelta di affidare tutto a un codice da inquadrare, c’è la rinuncia a qualcosa di più importante: il contatto umano. Nessuno che venga al tavolo a raccontarti un piatto, a consigliarti un vino, a chiederti semplicemente se tutto procede bene. Si ordina con un clic, si paga con un altro, si esce senza che nessuno ti abbia davvero considerato.
Il QR code, da strumento utile, si è fatto simbolo di un cambiamento più profondo. E forse anche un po’ più inquietante: quello che vede nella tecnologia un modo per fare a meno delle persone, più che per migliorare il loro lavoro.
La trappola dell’efficienza
Dietro ogni QR code, ogni tablet al tavolo o totem per l’ordine automatico, c’è una promessa: quella di rendere tutto più rapido, efficiente, “smart”. Meno attese, meno errori, meno personale da gestire. In apparenza, un progresso. Ma in pratica, spesso, è una scorciatoia che ha poco a che fare con l’innovazione e molto con la riduzione dei costi.
La parola magica è “ottimizzare” — un termine ormai onnipresente nei discorsi aziendali, che però spesso significa una cosa sola: tagliare. Tagliare i turni, tagliare la formazione, tagliare la componente relazionale del servizio. In nome della produttività, si smantella tutto ciò che non produce un ritorno misurabile immediato. Ma l’ospitalità, per sua natura, non è fatta solo di numeri, è fatta soprattutto di gesti, attenzione, sfumature.
Così, invece di integrare la tecnologia come supporto per le persone, si finisce per usarla per sostituirle. E il rischio è che l’efficienza, intesa in modo così miope, diventi una trappola: si guadagna qualcosa in velocità, certo, ma si perde molto in qualità, atmosfera, fidelizzazione. Si perde, soprattutto, il senso stesso del “servizio”.
Cultura aziendale o alibi?
Un tempo si parlava di “mission”, poi è arrivata la “vision”, oggi si parla (ossessivamente) di “cultura aziendale”. Ogni ristorante, catena o startup dell’hospitality sembra averne una, scritta in un manifesto che di solito finisce stampato accanto alla macchina del caffè, nel retro del menù digitale e negli annunci di lavoro redatti da HR pigri. Si legge di rispetto, inclusività, spirito di squadra, centralità del cliente. Belle parole che spesso rimangono tali.
Perché spesso, dietro la retorica motivazionale, si nasconde una realtà molto più cruda: turni infiniti, stipendi bassi, personale lasciato solo in sala a gestire intere brigate virtuali (QR inclusi) e clienti insoddisfatti e insofferenti. Frasi come “qui siamo una famiglia” diventano paradossali quando l’unica cosa condivisa è il carico di stress. “Siamo tutti leader” suona vuoto quando nessuno investe davvero nella crescita delle persone. Sul “pensare come se fossi un imprenditore” meglio stendere un velo pietoso.
La verità è che l’ossessione per l’identità aziendale spesso serve a mascherare l’assenza di una visione reale. Più che di cultura, si tratta di marketing, un modo per motivare i dipendenti a dare di più… in cambio di meno. E quando questo approccio incontra l’adozione di tecnologie pensate solo per ridurre il personale, l’esito è inevitabile: una struttura fragile, impersonale, dove nessuno si sente valorizzato — né chi serve, né chi viene servito.
Il declino del servizio
Una volta, entrare in un ristorante significava affidarsi, a qualcuno che ti accoglieva, ti accompagnava, ti consigliava, ti seguiva per tutta la serata. Oggi, sempre più spesso, significa cavarsela da soli. E non per caso: in molte realtà, il servizio in sala è stato il primo a essere sacrificato nel nome della sostenibilità economica — quella degli imprenditori, non del sistema.
Il personale di sala non è più formato, è “inserito”. Non è più una figura professionale con competenze precise, ma un runner che porta piatti dal punto A al punto B, spesso senza sapere cosa sta servendo. La brigata di sala, un tempo orchestrata con cura come quella di cucina, si è trasformata in una serie di operatori multitasking, lasciati spesso senza guida né visione d’insieme. E il cliente lo percepisce. Percepisce che manca l’anima, che qualcosa si è spezzato tra il momento in cui varca la soglia e quello in cui paga il conto.
Il servizio, inteso come presenza umana, attenzione sincera, capacità di “leggere” la sala, è stato sostituito da processi. Tutto funziona – non sempre – ma in modo meccanico. Il risultato è che l’esperienza diventa intercambiabile, replicabile, impersonale. Il cliente non si ricorderà né un nome né un volto, ma solo il fatto di aver ordinato dal telefono. E forse nemmeno quello.
Soli, connessi, disconnessi
C’è un’altra verità scomoda che spesso si evita di nominare: molti clienti non cercano più un contatto umano perché non sono più abituati a gestirlo. In un mondo in cui tutto passa attraverso uno schermo — dalle emozioni alla spesa di casa, dalla conversazione alle prenotazioni — anche l’esperienza al ristorante rischia di diventare un gesto solitario travestito da socialità.
Seduti a tavola, in coppia o in gruppo, si ordina dal proprio telefono, si guarda lo schermo, non il cameriere e si chatta con anche con chi è seduto alla stessa tavola. La tecnologia, invece di favorire l’incontro, spesso lo ostacola. E quando anche il ristorante — ultimo baluardo dell’esperienza condivisa — si adegua, allora il paradosso si completa: siamo iperconnessi, ma più soli che mai.
In questo contesto, l’eliminazione del personale di sala non è solo una scelta economica: è un segnale di resa. Come se avessimo accettato che le persone non sappiano più parlarsi, e quindi tanto vale lasciare che siano i dispositivi a gestire tutto. Ma accettare questa deriva, anziché contrastarla, significa rinunciare a uno degli ultimi spazi in cui l’essere umani può ancora fare la differenza.
L’avidità non è buona
“Greed is good,” diceva Gordon Gekko in “Wall Street” nel lontano 1987. Ma quella frase — scritta per essere disturbante, provocatoria, quasi grottesca — è diventata per molti una linea guida nel mondo reale. L’avidità è stata sdoganata, normalizzata, quasi celebrata. Non più vizio da contenere, ma motore da sfruttare. E nel mondo della ristorazione, questo ha prodotto una lunga serie di scelte miopi, travestite da efficienza: meno personale, meno formazione, meno relazioni. Ma più margini, più tavoli, più turni.
Solo che ciò che funziona su un foglio Excel spesso non funziona nella realtà. L’avidità aziendale, quando si fa sistema, non crea progresso: produce danni. Allontana i clienti, svuota le sale, trasforma ristoranti in catene impersonali dove nessuno ricorda un volto, ma tutti ricordano la sensazione di non essere stati visti. E logora i lavoratori, sempre più frustrati, sottopagati, lasciati senza strumenti né riconoscimento.
Il paradosso è che mentre si parla di cultura aziendale, di identità, di esperienze, si agisce come se ogni gesto umano fosse un costo da ridurre. La tecnologia, usata così, non è alleata dell’ospitalità: è una foglia di fico. E chi la brandisce per mascherare tagli, licenziamenti e precarietà non sta innovando: sta impoverendo.
Più che Gordon Gekko, il simbolo di questa avidità potrebbe essere Gollum, ossessionato da un “tesssoro” che finisce per distruggerlo. Inseguendo il profitto immediato, molti imprenditori stanno perdendo il bene più prezioso: il senso del proprio mestiere.
Ecco perché oggi più che mai, parlare di accoglienza non significa solo parlare di AI o QR code, ma di scelte morali, di responsabilità, di che tipo di esperienza umana vogliamo offrire, e a quale prezzo.